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Io non sono il tipo che si ritrova nella fattoria diun estraneo nel cuore della notte

rango

Sale drogué·e
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2 Fev 2012
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Io non sono il tipo che si ritrova nella fattoria di un estraneo nel cuore della notte

Tratto da "Se niente importa - perchè mangiamo gli animali?" di Jonathan Safran Foer

Sono vestito di nero nel cuore della notte nel bel mezzo del nulla. Porto copriscarpe sopra le scarpe usa e getta e guanti di lattice sulle mani che mi tremano. Mi tasto, controllando per la quinta volta di avere tutto: torcia con filtro rosso, carta d'identità, quaranta dollari in contanti, videocamera, copia dell'articolo 597e del codice penale californiano, bottiglia d'acqua (non per me), cellulare silenziato, trombetta. Spegniamo il motore e percorriamo a piedi l'ultima trentina di metri fino al punto individuato nel corso della giornata durante uno dei cinque o sei sopralluoghi preliminari. Fin qui non fa ancora paura.
Sono in compagnia di una militante animalista, C. Solo quando sono passato a prenderla mi sono reso conto di essermi immaginato qualcuno che ispirasse sicurezza. Invece C. è piccolina e minuta. Indossa occhialoni da aviatore e infradito e porta l'apparecchio per i denti.
«Hai un sacco di macchine» ho notato mentre ci allontanavamo da casa sua.
«Vivo ancora con i miei.»
Mentre percorrevamo l'autostrada - che la gente del posto chiama «Strada del sangue», sia per la frequenza degli incidenti sia per il numero di camion carichi di animali destinati al mattatoio che vi transitano - C. mi ha spiegato che qualche volta per «entrare» basta varcare un cancello aperto, anche se ormai è diventato sempre meno frequente, per via delle preoccupazioni sulla biosicurezza e dei «piantagrane». Di questi tempi è più probabile che si debbano scavalcare le recinzioni. Ogni tanto si accendono le luci e scattano gli allarmi. Può capitare che ci siano dei cani, e che i cani non siano legati. Una volta ha incontrato un toro che vagava libero tra i capannoni, in attesa di incornare qualche vegetariano ficcanaso.
«Toro» ho ripetuto, a metà fra la domanda e l'affermazione.
«Il maschio della mucca» ha detto lei brusca, mentre frugava in una borsa che sembrava piena di attrezzatura odontoiatrica.
«E se stanotte tu e io incontrassimo un toro?»
«Non succederà.»
Uno che mi stava incollato mi ha costretto a mettermi dietro a un camion stipato di polli diretti al macello.
«Per ipotesi.»
«Rimani fermissimo» mi ha consigliato C. «Non credo che vedano gli oggetti immobili.»
Se la domanda è: a C. è mai capitato qualcosa di serio durante una delle sue visite notturne?, la risposta è sì. C'è stata la volta che è caduta in una buca di letame con due conigli moribondi, uno per braccio, e si è ritrovata immersa (alla lettera) nella merda (alla lettera) fino al collo. E c'è stata la volta che è stata costretta a trascorrere la notte nel buio più nero con ventimila animali disperati e le loro esalazioni, dopo essersi chiusa per sbaglio dentro un capannone. E c'è stato il caso quasi fatale di Campylobacter che uno del suo gruppo si è beccato prendendo un pollo.
Si stavano accumulando piume sul parabrezza. Ho azionato i tergicristalli e le ho chiesto: «Che cos'è tutta quella roba che hai nella borsa?»
«Nel caso dovessimo fare un salvataggio.»
Non sapevo a cosa si riferisse, e non mi piaceva.
«Hai appena detto che non credi che i tori vedano gli oggetti immobili. Non ti pare una di quelle cose che dovresti assolutamente sapere? Non che io voglia rigirare il coltello nella piaga, ma...»
...ma in che razza di situazione mi sono cacciato? Io non sono un giornalista, un attivista, un veterinario, un avvocato o un filosofo, come sono, a quanto ne so, gli altri che hanno intrapreso un viaggio simile. Non sono preparato a tutto questo. E non sono capace di starmene immobile davanti a un toro da guardia.
Ci fermiamo sulla ghiaia nel punto concordato e aspettiamo che sugli orologi che abbiamo sincronizzato scattino le tre del mattino, l'ora stabilita. Il cane che avevamo visto durante il giorno non si sente, ma non è una grande consolazione. Prendo il foglietto dalla tasca e lo leggo un'ultima volta:

Nel caso in cui qualunque animale domestico in qualunque momento sia [...] rinchiuso e continui a esserlo senza il cibo e l'acqua necessari per più di dodici ore consecutive, è legale per chiunque entrare, quando lo si ritenga necessario, in qualunque recinzione in cui sia confinato l'animale e fornirgli il cibo e l'acqua necessari mentre rimane confinato. Questa persona non è punibile per l'ingresso...

Pur essendo legge dello stato, è rassicurante all'incirca come il silenzio di Cujo. Mi immagino un allevatore armato, svegliato dal sonno rem, che si imbatte in un saputello come me intento a verificare in quali condizioni vivono i suoi tacchini. Lui carica la doppietta, il mio sfintere si allenta, e poi? Tiro fuori l'articolo 597e del codice penale californiano? Così facendo il dito sul grilletto gli pruderà di più o di meno?
È ora.
Usiamo una mimica enfatica per comunicarci quello che con un semplice sussurro ci saremmo detti altrettanto bene. Ma abbiamo fatto voto di silenzio: non una parola fino a quando saremo sani e salvi sulla via di casa. Lo svolazzo di un dito inguantato di lattice significa: Andiamo.
«Prima tu» mi scappa.
E adesso la parte che fa paura.


L'intera triste faccenda

Abbiamo parcheggiato a qualche centinaio di metri di distanza perché C. da una foto satellitare aveva visto che era possibile avvicinarsi ai capannoni di nascosto passando per un frutteto li vicino. I nostri corpi piegano i rami mentre camminiamo in silenzio. A Brooklyn sono le sei del mattino, il che vuol dire che mio figlio si sveglierà presto. Si rigirerà nel lettino per qualche minuto, poi si metterà a urlare - dopo essersi tirato su senza sapere come fare a rimettersi giù - e mia moglie lo prenderà in braccio, lo porterà sulla sedia a dondolo, se lo stringerà al petto e lo allatterà. Potrei dimenticare o ignorare l'impatto di tutto questo - il viaggio in California, le parole che sto scrivendo a New York, le fattorie che ho visitato in Iowa, in Kansas e nello stretto di Puget - se non fossi un padre, un figlio, un nipote; se, come nessun altro al mondo, mangiassi da solo.
Circa venti minuti dopo, C. si ferma e si volta di novanta gradi. Non so come faccia a sapere di doversi fermare proprio lì, in corrispondenza di un albero che è impossibile distinguere dalle centinaia di altri che abbiamo passato. Camminiamo per un'altra decina di metri attraversando un reticolo di alberi identico e ci fermiamo, come due canoisti davanti a una cascata. Dal fogliame al limite del frutteto vedo, più o meno a una decina di metri, una recinzione di filo spinato e, oltre, il complesso della fattoria.
Come avrei appreso in seguito, la fattoria è costituita da una serie di sette capannoni, ognuno di quindici metri per centocinquanta, ognuno con all'interno circa venticinquemila tacchini.3
Accanto ai capannoni c'è un imponente silo granario, più simile a qualcosa di uscito da Biade Runner che dalla Casa nella prateria. L'esterno degli edifici è avviluppato da un reticolato di tubi e condotti metallici, grossi ventilatori sporgono rumorosi e cellule fotoelettriche scavano sacche illuminate a giorno stranamente definite. Tutti ci siamo fatti l'idea che in una fattoria ci siano campi, stalle, trattori e animali, o almeno una di queste cose. Dubito che sulla faccia della Terra esista un non addetto ai lavori che possa anche solo immaginare quello che sto vedendo. Eppure ho davanti a me il genere di fattoria che produce all'incirca il 99 per cento della carne consumata negli Stati Uniti.
Con i suoi guanti da astronauta C. apre un varco nel filo spinato quanto basta perché io riesca a sgusciarci attraverso. I miei pantaloni si impigliano e si lacerano, ma sono usa e getta, comprati apposta. C. mi passa i guanti e io tengo aperto il filo spinato per lei.
La superficie è simile a quella lunare. A ogni passo, il piede affonda in un compost di escrementi di animali, fango e non so che altro si sia riversato intorno ai capannoni. Devo arricciare le dita dei piedi per impedire che le scarpe rimangano intrappolate in quel lerciume appiccicoso. Sto accucciato per rimpicciolirmi il più possibile e tengo le mani contro le tasche per evitare il tintinnio del loro contenuto. Ci trasciniamo rapidi e in silenzio attraverso lo spiazzo vuoto fino a raggiungere la fila di capannoni, che ci riparano consentendoci di muoverci più liberamente. Enormi unità di ventilazione - una decina, ciascuna di circa un metro e venti di diametro - si aprono e si chiudono a intermittenza.
Ci avviciniamo al primo capannone. Una luce filtra da sotto la porta. È una notizia buona e al tempo stesso cattiva: buona perché non avremo bisogno di usare le torce che, mi dice C, spaventano gli animali, e nella peggiore delle ipotesi possono far stridere e agitare l'intera batteria; cattiva perché, se qualcuno dovesse aprire la porta per controllare cosa succede, sarebbe impossibile nascondersi. Mi chiedo perché un capannone pieno di animali debba essere illuminato a giorno nel cuore della notte.
Sento movimenti all'interno: il ronzio dei macchinari si fonde con quello che sembra il brusio del pubblico o un negozio di lampadari durante un lieve terremoto. C. armeggia con la porta, poi mi fa segno che dobbiamo spostarci verso il capannone successivo.
Passiamo parecchi minuti così, in cerca di una porta che non sia chiusa a chiave.
Un altro perché: Perché un allevatore dovrebbe chiudere a chiave le porte del suo allevamento di tacchini?
Non certo perché teme che qualcuno gli rubi le attrezzature o gli animali. Nei capannoni non ci sono attrezzature, e gli animali non valgono lo sforzo erculeo necessario per trasportarne illegalmente un numero sufficiente. Un allevatore non chiude a chiave le porte perché ha paura che gli animali scappino. (I tacchini non sanno girare le maniglie.) E nonostante i segnali, non è neppure per motivi di biosicurezza. (Il filo spinato basta e avanza per tenere lontani i curiosi.) Quindi perché?
Nei tre anni che avrei trascorso immerso nel comparto zootecnico, niente mi avrebbe turbato più delle porte chiuse a chiave. Niente rende meglio l'idea dell'intera triste faccenda dell'allevamento intensivo. E niente mi avrebbe maggiormente convinto a scrivere questo libro.
A quanto pare, le porte chiuse a chiave sono il meno. Non ho mai ricevuto risposta dalla Tyson Foods né da qualunque altra azienda cui abbia scritto. (Dire no manda un certo tipo di messaggio. Non prendersi neppure la briga di rispondere ne manda un altro.) Persino enti di ricerca con staff di collaboratori pagati si trovano costantemente intralciati dalla segretezza dell'industria. Quando l'autorevole e danarosa Pew Commission decise di finanziare uno studio di due anni per valutare l'impatto dell'allevamento intensivo, riferì:

La Pew Commission ha incontrato seri ostacoli nel completare la propria indagine e giungere a raccomandazioni condivise. [...] Di fatto, mentre alcuni rappresentanti dell'industria agricola avevano raccomandato allo staff della Pew Commission i potenziali autori per i report tecnici, altri dissuadevano quelle stesse persone dal collaborare con noi minacciandoli di negare i finanziamenti alla ricerca ai loro college o alle loro università. Abbiamo riscontrato un'influenza massiccia dell'agroindustria in ogni circostanza: nella ricerca accademica, nello sviluppo delle politiche agricole, nelle regolamentazioni governative e nell'applicazione delle normative.

L'industria zootecnica esercita la propria influenza politica sapendo che il proprio modello di business dipende dal fatto che i consumatori non hanno la possibilità di vedere (o sentire).
Il salvataggio

Voci giungono dal silo. Perché lavorano alle tre e mezzo del mattino? I macchinari sonò impegnativi. Che genere di macchinari? Lavorano a pieno regime nel cuore della notte. Cosa fanno?
«Eccone uno» sussurra C. Apre una fessura del pesante portone di legno, liberando un parallelogramma di luce, ed entra. Io la seguo, chiudendo la fessura di porta dietro di me. La prima cosa che cattura la mia attenzione è la fila di maschere antigas sul muro vicino. Perché dovrebbero esserci maschere antigas nel capannone di un allevamento?
Sgattaioliamo dentro. Ci sono decine di migliaia di pulcini di tacchino. Avendo le dimensioni di un pugno e le piume color segatura, sul pavimento cosparso di segatura sono quasi invisibili. I pulcini sono ammassati a gruppi, addormentati sotto le lampade installate per scaldarli artificialmente, sostituendo il calore delle madri. Dove sono le madri?
La densità ha un'orchestrazione matematica. Distolgo lo sguardo dai pulcini per un attimo e osservo l'edificio: luci, sistemi di alimentazione automatizzati, ventilatori e lampade riscaldanti distribuiti in modo uniforme in un giorno artificiale perfettamente calibrato. A parte gli animali, non c'è traccia di qualunque altra cosa che si possa definire «naturale», neppure un fazzoletto di terra o una finestra che lasci entrare la luce della luna. Mi sorprende come sia facile scordarsi di quella vita anonima e limitarsi ad ammirare la sinfonia tecnologica che regola con tanta precisione questo piccolo mondo a parte, constatare l'efficienza e la supremazia dei macchinari e arrivare a interpretare quei pennuti come estensioni o ingranaggi dei macchinari, non esseri viventi ma parti. Vedere le cose in qualunque altro modo richiede uno sforzo. Guardo un singolo pulcino, come lotta per spostarsi dalla periferia dell'ammasso raccolto intorno alla lampada riscaldante verso il centro. E poi un altro, proprio sotto la lampada, apparentemente contento come un cane in una pozza di luce. Poi un altro, che non si muove affatto, non sembra neppure che respiri.
Di primo acchito la situazione nel capannone non sembra pessima. È affollato, ma sembrano abbastanza felici. (I piccoli umani non sono forse tenuti chiusi in asili affollati?) E sono carini. L'euforia di infrangere la legge, e di vedere quello che ero venuto a vedere, e di trovarmi davanti tutti questi pulcini mi fa sentire piuttosto bene.
C. si è allontanata per dare un po' d'acqua ad alcuni piccoli dall'aspetto afflitto in un'altra parte del capannone, così io mi aggiro in punta di piedi, lasciando vaghe impronte nella segatura. Comincio a sentirmi più a mio agio con i tacchini, mi viene voglia di avvicinarmi di più, se non di prenderli in mano. (Il primo comandamento di C. è di non toccarli mai.) Più mi avvicino, più vedo. L'estremità del becco è annerita, così come le estremità delle zampe. Alcuni hanno macchie rosse in cima alla testa.
Gli animali sono così tanti che ci metto diversi minuti prima di rendermi conto di quanti sono quelli morti. Alcuni sono coperti di sangue, altri sono pieni di piaghe. Alcuni sembra siano stati beccati, altri sono disidratati e ammassati alla bell'e meglio come mucchi di foglie morte. Alcuni sono deformi. I morti sono l'eccezione, ma non c'è modo di girare lo sguardo senza vederne almeno uno.
Mi avvicino a C; sono trascorsi dieci minuti buoni e non ho questa gran voglia di approfittare della nostra fortuna. È inginocchiata su qualcosa. Mi avvicino e mi inginocchio accanto a lei. Un pulcino trema sul fianco, le zampe divaricate, gli occhi incrostati. Altre croste sporgono dalle aree implumi.
Il becco è leggermente aperto, la testa si agita avanti e indietro. Quand'è nato? Da una settimana? Due? È nato così o gli è successo qualcosa? Che cosa potrebbe essergli successo?
C. saprà che cosa fare, penso. Infatti è così.
Apre la borsa ed estrae un coltello. Tenendogli una mano sulla testa - lo sta tenendo fermo o gli sta coprendo gli occhi? - gli taglia il collo, salvandolo.


Il testo è un pò lungo, ma ha colpito nella testa e nel cuore.
 

rango

Sale drogué·e
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chiedo scusa, ho postato qui ma era da mettere in Baretto....
 

MENE

Holofractale de l'hypervérité
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davvero toccante questo testo...
certi allevamenti sono davvero una crudeltà. ricordo di aver visto un documentario su un allevamento di polli.
le galline erano tutte immobilizzate in gabbie minuscole e potevano solo muovere il collo per mangiare, senza contare che a tutte venivano tagliate le zampe.
poi entravano ancora vive una per una col rullo trasportatore in una grande macchina (tipo il film galline in fuga) e uscivano le cotolette di pollo impanate.
 

rango

Sale drogué·e
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Tratto da "Se niente importa - perchè mangiamo gli animali?" di Jonathan Safran Foer

Io sono il tipo che si ritrova nella fattoria di un estraneo nel cuore della notte


Il piccolo tacchino che ho eutanasizzato nel nostro salvataggio, quello sì che è stato duro. Uno dei lavori che ho fatto, molti anni fa, è stato in uno stabilimento di polli. Facevo l'uccisore di riserva, vale a dire che era mia responsabilità tagliare la gola ai polli che sopravvivevano al tagliagola automatico. Ho ucciso migliaia di polli in quel modo. Forse decine di migliaia. Forse centinaia di migliaia. In quel contesto perdi traccia di qualunque cosa: dove sei, che cosa stai facendo, da quanto lo stai facendo, che cosa sono gli animali, che cosa sei tu. È un meccanismo di sopravvivenza che ti impedisce di impazzire. Ma è proprio questa la sua follia intrinseca.
Grazie a quel lavoro alla linea di macellazione, conoscevo l'anatomia del collo e sapevo come uccidere quel pulcino all'istante. E ogni parte di me sapeva che era la cosa giusta da fare per sottrarlo alla sua miseria. Ma è stata dura, perché non era in una linea di migliaia di gallinacei pronti alla macellazione. Era un individuo. In questa prospettiva tutto diventa difficile.


Io non sono un'estremista. Sono quasi sempre una moderata. Non ho piercing. Non ho una pettinatura strana. Non faccio uso di droghe. Politicamente parlando, sono progressista su alcuni argomenti e conservatrice su altri. Ma vedi, l'allevamento intensivo e un argomento da moderati, qualcosa su cui quasi tutte le persone ragionevoli si troverebbero d'accordo, se avessero accesso alla verità.


Sono cresciuta in Wisconsin e in Texas. Vengo da una famiglia normalissima: mio padre andava (e va) a caccia, tutti i miei zii mettevano trappole e pescavano. Mia madre cucinava l'arrosto tutti i lunedì sera, il pollo ogni martedì e via discorrendo. Mio fratello gareggiava nei campionati statali di due sport.
La prima volta che fui messa di fronte alla questione dell'allevamento fu quando un amico mi mostrò dei filmati di bovini al macello. Eravamo ragazzini ed era solo una merdata oscena, come quei film delle
Facce della morte. Lui non era vegetariano - nessuno era vegetariano - e non stava cercando di farmi diventare vegetariana. Era solo per ridere.


Quella sera a cena avevamo cosce di pollo, e io non riuscii a mangiare la mia. Mentre tenevo l'osso in mano, non mi sembrava carne di pollo, ma un pollo. Avevo sempre saputo che stavo mangiando un individuo, credo, ma la cosa non mi aveva mai colpito. Mio padre mi chiese che cosa c'era che non andava e io gli raccontai del video. In quella fase della mia vita, prendevo tutto quello che mi diceva per oro colato ed ero sicura che sapesse spiegare qualunque cosa. Ma tutto quello che mio padre riuscì a tirare fuori fu una cosa del tipo: «Brutta storia». Se si fosse fermato lì, forse adesso non sarei qui a parlare con te. Ma ci fece sopra una battuta. La stessa battuta che fanno tutti. Da allora l'avrò sentita un milione di volte. Fece finta di essere un animale che piange. Per me fu una rivelazione, e mi mandò in bestia. Decisi di punto in bianco che non avrei mai fatto una battuta davanti a qualcosa che non sapevo spiegare.


Volevo capire se quel video era un'eccezione. Probabilmente volevo una scappatoia che non mi costringesse a cambiare la mia vita. Così scrissi a tutte le aziende agricole più importanti, chiedendo di poterle visitare. Sinceramente non mi passò neppure per la testa che potessero dire di no o evitare di rispondere. Non ottenni nulla, così cominciai a girare in macchina chiedendo a qualunque allevatore che incontravo se potevo dare un'occhiata nei suoi capannoni. Avevano sempre una ragione per rifiutare. Considerato quello che fanno, non li biasimo se non vogliono che nessuno veda. Ma considerata la loro reticenza su un aspetto così importante, chi può biasimare me se sentivo l'esigenza di fare le cose a modo mio?


La prima fattoria in cui sono entrata di notte produceva uova, aveva forse un milione di galline. Erano stipate in gabbie accatastate una sull'altra. Ebbi bruciori agli occhi e ai polmoni per giorni. Fu meno cruento e sanguinoso di quello che avevo visto nel video, ma mi colpì ancora di più. Quello mi cambiò davvero, quando mi resi conto che una vita atroce è peggio di una morte atroce.


L'azienda avicola era tanto orrenda che pensai che anche quella dovesse essere un'eccezione. Probabilmente non mi capacitavo che si permettessero cose simili su così larga scala. Così andai in un'altra fattoria, un allevamento di tacchini. Ver caso arrivai proprio pochi giorni prima della macellazione, per cui i tacchini erano al massimo della crescita e così pigiati l'uno sull'altro da non riuscire a vedere il pavimento. Erano completamente impazziti: frullavano le ali, gloglottavano, si attaccavano l'uno con l'altro. C'erano tacchini morti dappertutto, e altri moribondi. Fu triste. Non ero io ad averli messi lì, ma mi vergognai di essere una persona. Dissi a me stessa che doveva essere un'eccezione. E andai in un'altra fattoria. E in un'altra. E in un'altra ancora.
Forse insistevo perché in fondo non volevo credere che quanto avevo visto fosse la norma. Ma chiunque si preoccupa di conoscere queste cose sa che gli allevamenti intensivi sono quasi l'unica realtà. La maggior parte delle persone non ha la possibilità di vederli con i propri occhi, ma può vederli attraverso i miei. Ho filmato le condizioni degli animali in aziende avicole per la produzione di uova e per la produzione di polli e tacchini da carne, in un paio di impianti suinicoli (ormai è sostanzialmente impossibile entrarci), allevamenti di conigli, stalle per vacche da latte e recinti da ingrasso per bovini, aste di bestiame e camion da trasporto. Ho lavorato in alcuni impianti di macellazione. Sporadicamente il filmato raggiungeva il telegiornale della sera o i quotidiani. Qualche volta li hanno usati in tribunale nei processi per i maltrattamenti sugli animali.


Per questo ho accettato di aiutarti, lo non ti conosco. Non so che tipo di libro scriverai. Ma se in qualche misura farà conoscere ciò che succede negli allevamenti intensivi, sarà solo positivo. In questo caso la verità è così potente che la prospettiva da cui ti poni non ha importanza.
Comunque, vorrei assicurarmi che quando scriverai il tuo libro non darai l'impressione che io non faccia altro che uccidere animali. L'ho fatto quattro volte, solo quando non c'era altro da fare. Di solito porto gli animali più malmessi dal veterinario. Ma quel pulcino era troppo malato per essere spostato. E stava soffrendo troppo perché lo lasciassi vivere. Guarda, io sono per la vita. Credo in Dio, credo nel paradiso e nell'inferno. Ma non ho alcuna venerazione per la sofferenza. Negli allevamenti intensivi calcolano quanto possono tenere gli animali vicino alla morte senza ucciderli. È questo il loro modello di business. A che velocità possono farli crescere, quanto possono pigiarli, quanto o quanto poco possono mangiare, quanto possono ammalarsi senza morire.


Non stiamo parlando di sperimentazione sugli animali, nel qual caso puoi pensare che la sofferenza venga compensata da un vantaggio. Parliamo di quello che ci va di mangiare. Dimmi una cosa: perché il gusto, il più rozzo dei sensi, è dispensato dalle regole etiche che governano gli altri sensi? Se ti fermi a pensarci, è una cosa da pazzi. Perché un arrapato non ha il diritto di stuprare un animale mentre un affamato ha il diritto di ucciderlo e mangiarlo? È facile liquidare la domanda, ma è difficile darle una risposta. E come giudicheresti un artista che mutilasse gli animali in una galleria perché fa colpo visivamente? Quanto dev'essere affascinante il suono di un animale torturato per volerlo sentire a tutti i costi? Prova a immaginare una qualunque altra finalità, a parte il gusto, per cui sarebbe giustificabile fare quello che facciamo agli animali d'allevamento.


Se io abuso del logo di una grande azienda, potrei persino finire in galera; se una grande azienda abusa di miliardi di polli la legge non protegge i polli, ma il diritto dell'azienda di fare quello che vuole. È questo che succede quando si negano i diritti degli animali. È pazzesco che l'idea dei diritti degli animali sembri pazzesca a qualcuno. Viviamo in un mondo che considera normale trattare gli animali come pezzi di legno e considera estremistico trattare gli animali come animali.
Prima che venissero introdotte le leggi sul lavoro minorile, esistevano aziende che trattavano bene i loro operai di dieci anni. La società non ha proibito il lavoro minorile perché è impossibile pensare che i bambini lavorino in un ambiente sano, ma perché dare a un'azienda tutto quel potere su individui inermi è una depravazione. Pensare di avere più diritto a mangiare un animale di quanto ne abbia l'animale a vivere senza soffrire è una depravazione. Non sono ragionamenti astratti. È questa la realtà in cui viviamo. Guarda che cosa sono gli allevamenti intensivi. Guarda che cos'ha fatto la nostra società agli animali non appena ne ha avuto il potere tecnologico. Guarda che cosa facciamo effettivamente in nome del «benessere degli animali» e del «trattamento umano», e poi decidi se sei ancora disposto a mangiare carne.

 

MENE

Holofractale de l'hypervérité
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purtroppo la gente non vuole sapere cosa c'è dietro alle cose che gli piacciono o li fanno stare bene, per paura di vedere qualcosa che non gli piace, facendoli sentire così per dei mostri insensibili, di conseguenza preferiscono non sapere e anche se glie lo spieghi o mostri molti faranno ancora finta di non sentire o non vedere per colpa del loro ego moralista che mette sempre l'uomo al primo posto su tutto.
arrivare al punto di pagare fior di quattrini magari carne di delfino o animali protetti non più nemmeno per un capriccio del loro palato, ma per la rarità e la difficile reperibilità del prodotto. per sentirsi importanti ad essere uno dei pochi a poter avere il privilegio di gustare quell'animale.
poi magari vedono dal loro balcone sul parco un ragazzo che si fa una canna e chiamano i carabinieri per poi andare a dormire felici di aver fatto il loro dovere civico.
non so se avere più paura di persone così o dei criminali veri...
 

rango

Sale drogué·e
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visto che parli di pesci - e ancora i mod non hanno spostato il thread in un'altra sezione :) - aggiungo un'altro brano sempre dallo stesso libro

Penso che la conoscenza possa sempre cambiare le persone, anche se spesso si fa finta (io per primo) di non ascoltare per non modificare le proprie abitudini


[h=2]Il nostro sadismo sottomarino
(una digressione sul tema)[/h]
[..] Ma i pesci pescati sono un'alternativa più umana? Di certo hanno una vita migliore prima di essere presi, perché non vivono tra recinzioni anguste e sporche. Una differenza rilevante.
Ma riflettiamo sui metodi di pesca più comuni per le specie ittiche più consumate in America: tonno, gamberi e salmone. I tre metodi principali sono: pesca con il palangaro, pesca a strascico e pesca con reti a circuizione.
Un palangaro assomiglia a una linea del telefono che corre sull'acqua, sospesa alle boe invece che ai pali. A intervalli periodici lungo la linea principale si dipartono piccole linee secondarie, ciascuna irta di ami. Ora immaginiamoci il dispiegamento non di uno soltanto di questi palangari multiamo, ma di decine o centinaia, uno dopo l'altro, da parte di una singola imbarcazione. Localizzatori satellitari GPS e altre apparecchiature di comunicazione elettronica sono attaccati alle boe perché i pescatori possano ritrovarle. E naturalmente non c'è un unico peschereccio a usare palangari, ma sono decine, centinaia o addirittura migliaia nelle flotte di pescherecci più grosse.

I palangari oggi possono raggiungere anche i centoventi chilometri di lunghezza, abbastanza per attraversare il canale della Manica più di tre volte. Ogni giorno si stima che vengano calati in acqua ventisette milioni di ami. E i palangari non uccidono soltanto le specie mirate, ma anche altre centoquarantacinque. Secondo uno studio sono all'incirca quattro milioni e mezzo gli animali marini uccisi come prede accessorie ogni anno, compresi oltre tre milioni di squali, un milione di marlin, sessantamila tartarughe marine, settantacinquemila albatros e ventimila delfini e balene.

Neppure i palangari, però, producono l'immensa cattura di prede accessorie legate alla pesca a strascico. Il tipo più diffuso di peschereccio attrezzato con reti a strascico per gamberetti spazza un'area ampia circa 25-30 metri. Lo strascico draga il fondo marino a una velocità di 4,5-6,5 chilometri all'ora per diverse ore, e spinge i gamberetti (e tutto il resto) all'estremità opposta di una rete a forma di imbuto. La pesca a strascico, quasi sempre per i gamberetti, è il corrispondente marino del disboscamento della foresta pluviale. Qualunque sia l'obiettivo, le reti a strascico dragano pesci, squali, razze, granchi, calamari, molluschi: solitamente un centinaio di specie diverse di pesci e rettili marini. Quasi tutte muoiono.
C'è qualcosa di abbastanza sinistro in questo modo di «raccogliere» la fauna ittica che fa «terra bruciata». Le operazioni di pesca a strascico portano a gettare fuori bordo in media l'80-90 per cento degli animali marini che catturano. Le meno efficienti raggiungono una percentuale superiore al novantotto per cento di prede accessorie catturate e ributtate in mare morte.
Stiamo letteralmente riducendo la biodiversità e la vivacità della vita marina nel suo complesso (cosa che gli scienziati hanno imparato solo di recente a misurare). Le moderne tecniche di pesca stanno distruggendo gli ecosistemi che alimentano i vertebrati più complessi (come salmoni e tonni), lasciando nella loro scia solo quelle poche specie che, casomai, possono sopravvivere con alghe e plancton. Mentre noi ci ingozziamo dei pesci più ambiti, solitamente carnivori al vertice della catena alimentare come tonno o salmone, eliminiamo i predatori e provochiamo un boom di breve durata delle specie che si trovano un gradino più in basso nella catena. Poi peschiamo anche quelle specie finché non scompaiono e scendiamo un gradino più in basso. La rapidità con cui questo processo avviene su scala generazionale rende difficile cogliere i cambiamenti (sapete quali pesci mangiavano i vostri nonni?), e il fatto che i volumi di cattura non diminuiscano dà una fallace impressione di sostenibilità. Nessuno pianifica la distruzione, ma le leggi di mercato portano inevitabilmente all'instabilità. Non stiamo esattamente svuotando i mari; è più come radere a zero una foresta con migliaia di specie diverse per creare enormi monocolture di un unico tipo di soia.
La pesca a strascico e la pesca con il palangaro non solo sono preoccupanti da un punto di vista ecologico, ma sono anche crudeli. Le reti a strascico comprimono tra loro centinaia di specie diverse, che vengono squarciate sui coralli, sbattute sulle rocce - per ore - e poi issate fuori dall'acqua con una decompressione dolorosa (che può causare l'esplosione degli occhi o far uscire gli organi interni dalla bocca). Anche nel caso dei palangari la morte che gli animali affrontano è in genere lenta. Alcuni vi rimangono appesi e muoiono solo quando vengono staccati. Altri muoiono per le ferite provocate dall'amo alla bocca o mentre cercano di liberarsi. Altri non sono in grado di sfuggire agli attacchi dei predatori.

La pesca con rete a circuizione, l'ultimo metodo che mi accingo a discutere, è il principale sistema usato per catturare il prodotto ittico più popolare d'America, il tonno. Si srotola un muro di rete intorno al banco di pesci prescelto e, una volta che lo si è circondato, si chiude il fondo della rete, come se i pescatori tirassero la stringa di un sacco gigantesco. Il pesce intrappolato e qualunque altra creatura nelle vicinanze vengono portati in superficie e issati a bordo. Nel corso di queste operazioni i pesci impigliati nella rete possono venire lentamente fatti a pezzi. La maggior parte degli animali marini, però, trova la morte sul peschereccio, dove soffoca a poco a poco, oppure le branchie vengono tagliate quando l'animale è ancora cosciente. In alcuni casi, i pesci sono buttati sul ghiaccio, cosa che in realtà prolunga l'agonia. Secondo un recente studio pubblicato su «Applied Animai Behaviour Science», i pesci muoiono lentamente e dolorosamente in un arco di tempo che può arrivare anche a quattordici minuti, dopo essere stati scaraventati perfettamente coscienti nel ghiaccio semiliquido (è un destino che accomuna il pesce pescato e quello allevato).
Tutto questo importa? Importa abbastanza da indurci a cambiare quello che mangiamo? Forse tutto quello di cui avremmo bisogno sono etichette migliori che ci permettano di prendere decisioni più avvedute sui pesci e i prodotti ittici che compriamo? Che conclusione trarrebbero gli onnivori più selettivi se su ogni salmone che mangiano ci fosse un'etichetta che informa di come salmoni d'allevamento lunghi settantacinque centimetri trascorrano la vita nell'equivalente di una vasca da bagno d'acqua e abbiano gli occhi che sanguinano per il troppo inquinamento? E se l'etichetta spiegasse che l'acquacoltura provoca un'esplosione delle popolazioni di parassiti, l'aumento delle malattie, il deterioramento dei geni, nuovi microrganismi resistenti agli antibiotici?
Ci sono cose, però, che possiamo sapere senza leggere l'etichetta. Mentre è realistico pensare che almeno una certa percentuale di vacche e maiali sia macellata in fretta e bene, nessun pesce ottiene una buona morte. Neppure uno. Non c'è bisogno che tu ti chieda se il pesce che hai nel piatto abbia sofferto. Ha sofferto.
Che si parli di pesci, maiali o di altri animali, questa sofferenza è la cosa più importante al mondo? Ovviamente no. Ma non è questo il punto. È più importante del sushi, del bacon o delle crocchette di pollo? Questo è il punto.
 

Monad

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