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L’uso di enteogeni nella tradizione buddhista

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L’uso di enteogeni nella tradizione buddhista


Scritto da Enrica – 21 settembre 2011

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Il termine “enteogeno” è un neologismo che deriva dal greco antico: entheos, che significa letteralmente “Dio (theos) dentro”, e genesthe, ovvero “generare”. Così enteogeno è “ciò che genera Dio (o l’ispirazione divina) all’interno di una persona”.
Da un punto di vista storico la questione del rapporto tra sostanze enteogene e buddhismo non si era mai posta fino ai nostri tempi. L’ultima delle cinque regole di condotta morale, che sono a fondamento del codice di comportamento sia monastico che laico del theravada, una delle forme di buddhismo più vicine agli insegnamenti delle origini, vieta infatti espressamente l’uso di alcol e droghe in quanto elementi offuscanti per la mente.
Si può però cavillare sul significato di termini come “droga” o “offuscante” e sostenere la capacità di certe sostanze, come quelle enteogene appunto, di acuire, anziché oscurare, la chiarezza della mente.

L’uso di enteogeni nella tradizione buddista Vajrayana è stato infatti documentato da molti studiosi, le cui ricerche hanno stabilito che diverse piante psicoattive sono state sicuramente utilizzate entro contesti limitati nel Vajrayana, e in modo più ampio nelle tradizioni saivita e sciamanica.
Le indagini si sono concentrate principalmente sull’uso degli enteogeni nell’Anuttarayogatantra e specialmente (ma non esclusivamente) nello Yogini-tantra.
I dati che sono più immediatamente evidenti sono i numerosi riferimenti alle droghe-siddhi e ai rasayana elixirs, che contengono datura o cannabis.
Per esempio la pianta di Datura era reputata sacra in Cina, dove le persone credevano che quando Buddha predicava, il paradiso spruzzasse la pianta con la rugiada. E alcune leggende insegnano che Buddha mangiò solamente un seme di canapa per tre anni durante il suo periodo di ascetismo, e che abbia scelto di suicidarsi mangiando un fungo.
Ronald M. Davidson ha osservato che la datura è stata “impiegata come un unguento stupefacente nella cerimonia del fuoco, poiché può essere facilmente assorbita attraverso la pelle o i polmoni”. I semi di questo potente stupefacente, definiti “semi della passione” (candabija), sono potenti enteogeni che contengono alcaloidi della ioscina, iosciamina, atropina nelle forme che sopravvivono al fuoco o al calore. Perfino in dosi moderate la datura può rendere una persona praticamente immobile, in preda
alle allucinazioni.

I rituali homa che si avvalgono della datura sono abbastanza comuni, e sono state trovate informazioni dettagliate su questa droga capace di indurre esperienze visionarie come un metodo per ottenere una conoscenza approfondita della natura del reale.
In linea generale, i riferimenti che sono stati rinvenuti nelle fonti originarie, possono essere suddivisi in tre categorie:
- letteratura primaria (numerosi tantra primari e secondari, commentari originali indiani, e storie e canzoni legate al mahasiddhas tantrico indiano)
- letteratura secondaria (testi rituali di origine tibetana o Newar, vari gter-ma o “testi segreti”, così come commentari della letteratura tibetana)
- moderna ricerca etnologica (studi da parte di ricercatori come antropologi ed etnologi, che documentano l’uso di enteogeni all’interno delle tradizioni Vajrayana tra nepalesi, tibetani, bhutanesi ecc).
Quando queste fonti sono prese insieme, il loro peso lascia poco spazio a dubbi che il Vajrayana abbia avuto una ben documentata tradizione di uso di piante enteogene (soprattutto datura e cannabis), per scopi magico-religiosi e psicospirituali. Nonostante l’uso non sia mai stato particolarmente diffuso, ciò è comunque certamente significativo.

Alan Watts,
originale interprete delle filosofie orientali, in particolar modo del Buddhismo Zen, e punto di riferimento della controcultura degli anni ’60, riassume l’effetto prodotto dalle sostanze psicotrope sulla propria coscienza in quattro fondamentali caratteristiche:
1) Concentrazione sul presente (l’abituale attenzione compulsiva per il futuro diminuisce e si diventa consapevoli di quanto sta accadendo nel presente);
2) Consapevolezza della polarità (la vivida comprensione che stati, cose ed eventi che abitualmente riteniamo opposti sono in realtà interdipendenti, come i poli di un magnete);
3) Consapevolezza della relatività (comprensione di essere legati a un’infinita gerarchia di processi e di esseri, dalle molecole agli esseri umani, nella quale ogni livello è soggetto alle medesime infinite relazioni);
4) Consapevolezza dell’en ergia eterna (il sentimento di unità con l’immensa energia, definibile anche come divinità, che permea e costituisce nella sua essenza e nelle sue manifestazioni l’intero universo).

Chi abbia anche solo un po’ di dimestichezza col pensiero buddhista ritroverà in questa visione della realtà fatta di eventi non permanenti ed interdipendenti alcuni dei suoi più noti capisaldi dottrinari, tanto che a Watts sorse il legittimo dubbio che la sostanza chimica non producesse in lui altro che una vivida percezione della sua concezione della realtà. Questo dubbio può essere smentito non solo dal fatto che queste esperienze suggerirono talvolta a Watts qualche cambiamento del suo pensiero precedente, ma anche dal fatto che esse rientrano a pieno titolo nella normale tipologia degli effetti provocati dalle sostanze enteogene.
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sd&m

Holofractale de l'hypervérité
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grazie di averlo postato...comunque da quando l'ho scritto sono venuto a conoscenza di altri riferimenti psicoattivi nel buddismo...forse dovrei ampliarlo un po'
 

kataz

Holofractale de l'hypervérité
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pubblico per attinenza.

Il Buddhismo occidentale sarà psichedelico di Paolo Vicentini

di Paolo Vicentini


L’incontro fra gli insegnamenti del Buddha e la cultura occidentale contemporanea ha dato luogo a reciproche fecondazioni, ma anche a possibili fraintendimenti, uno dei quali è sicuramente costituito dal rapporto fra sostanze psichedeliche e buddhismo.



Da un punto di vista storico la questione del rapporto tra sostanze psichedeliche e buddhismo non si era mai posta fino ai nostri tempi. L’ultima delle cinque regole di condotta morale, che sono a fondamento del codice di comportamento sia monastico che laico del theravada, una delle forme di buddhismo più vicine agli insegnamenti delle origini, vieta espressamente l’uso di alcol e droghe in quanto elementi offuscanti per la mente. Anche le numerose scuole del buddhismo mahayana, dove l’importanza assunta dalla figura del praticante laico ha comportato l’alleggerimento delle severe regole di condotta del buddhismo monastico antico, hanno sempre mantenuto fermo questo precetto, tutt’al più chiudendo un occhio solo nel caso dell’alcol. Certo si potrebbe cavillare sul significato di termini come “droga” o “offuscante” e sostenere la capacità di certe sostanze di acuire, anziché oscurare, la chiarezza della mente, ma questo non muta il fatto che storicamente non si è mai dato nel buddhismo l’uso di un qualsiasi tipo di sostanza, naturale o artificiale, volta a favorire il processo di maturazione e di risveglio spirituale. E ciò sebbene, almeno teoricamente, la cosa non fosse impossibile, vista la priorità data nell’insegnamento buddhista alla nozione di espediente o abile mezzo (upaya) rispetto alle normative morali e dottrinarie, priorità che ha raggiunto il suo apice nel buddhismo mahayana, in cui è ammesso l’uso da parte del maestro di qualsiasi stratagemma sia ritenuto utile a condurre l’allievo al risveglio. Perché dunque non considerare le sostanze psichedeliche come degli upaya allo stesso titolo degli espedienti di altra natura?

L’interrogativo è emerso in tutta la sua complessità a partire dagli anni Sessanta, quando gli insegnamenti buddhisti hanno cominciato a percorrere in maniera sistematica le strade del mondo occidentale e contemporaneamente l’uso delle sostanze psichedeliche ha assunto proporzioni mai prima raggiunte. Tuttavia, già a partire dagli anni Cinquanta, soprattutto grazie al movimento beat americano e alle strette relazioni instauratesi nel dopoguerra fra Stati Uniti e Giappone, comincia a diventare sempre più marcata l’attenzione per le dottrine buddhiste, in particolare per quelle zen, abbinata all’uso di droghe. Elemento catalizzatore dell’interesse per il buddhismo è l’opera divulgativa dello studioso giapponese Daisetsu Teitaru Suzuki, stabilitosi a New York nel 1953, che attraverso numerose pubblicazioni, conferenze e lezioni accademiche, pone le basi del futuro successo dello zen in America. Famosi rimangono i suoi seminari alla Columbia University nel 1955, cui partecipano personaggi di primo piano della beat generation statunitense quali John Cage, Neal Cassady, Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Ma anche altri illustri precursori della controcultura americana come Gary Snyder, Philip Whalen e Alan Watts sono influenzati dall’insegnamento di Suzuki. Ha così origine quello che, per usare una nota classificazione di Alan Watts, può essere definito lo zen beat, ossia una versione dello zen che ne esalta gli elementi spontaneisti e libertari, l’insofferenza verso ogni genere di convenzione, di istituzione e di norma, rendendo la pratica incline all’arbitrio e all’anarchia. Lo zen beat si pone dunque in naturale contrapposizione allo zen square delle scuole giapponesi ufficiali rinzai e soto, ligio alla severa disciplina, ma anche alla rigida gerarchia autoritaria e al supino formalismo propri della pratica zen monastica. Anche la predilezione per la marijuana o il peyote, tipica dei seguaci dello zen beat, è in realtà, come l’abuso di alcol, un elemento di sfida all’autorità costituita più che strumento di una consapevole ricerca spirituale.

Se negli anni Cinquanta l’interesse per il buddhismo è prevalentemente teorico, letterario e artistico, limitato ad un gruppo ristretto di intellettuali anticonformisti, negli anni Sessanta anche grazie all’influsso di questa élite si verifica un deciso orientamento verso la pratica, che coinvolgerà strati della popolazione sempre maggiori, specie in ambito giovanile. Si assiste alla nascita di una vera e propria controcultura in cui le dottrine buddhiste si coniugano con il pacifismo, l’ecologia, il movimento di liberazione sessuale, l’antipsichiatria, la psicoterapia, la lotta contro la vivisezione, ecc. Come era già accaduto negli anni Cinquanta, però, il buddhismo non viene indagato obiettivamente e praticato per come realmente si manifesta nei paesi e nelle culture di provenienza, ma è piuttosto utilizzato come mezzo utile a scalzare i fondamenti di una cultura dominante considerata oppressiva, come luogo mitico a cui far riferimento per delineare il proprio ideale sociale, culturale e spirituale alternativo ai valori e ai modelli di vita occidentali ufficiali. Accade così, per esempio, che le dottrine zen negli anni Sessanta e Settanta divengono il presupposto per giustificare la non-violenza ed il pacifismo, l’opposizione alla guerra del Vietnam e l’astensione dal servizio militare. Ben diversa era la realtà originale giapponese, dove nel corso della prima metà del secolo tutta la gerarchia monastica zen, tranne qualche sporadica eccezione, era stata non solo favorevole, ma attivamente partecipe alla politica imperialista ed espansionista del governo nipponico, arrivando perfino a giustificare la barbara strage di Nanchino (1937).

La diaspora di lama tibetani verso l’Europa e l’America, seguita all’invasione cinese del Tibet (1954-59), produce a partire dagli anni Sessanta un ulteriore impulso nella diffusione in Occidente degli insegnamenti del Buddha, rendendo nota una tradizione prima velata da un alone di mistero e deformata dalle invenzioni teosofiche. Rispetto alla generazione beat che l’aveva preceduta e che del buddhismo aveva apprezzato soprattutto le tendenze atee, iconoclaste e anti-autoritarie, la generazione hippie degli anni Sessanta e Settanta mostrerà sempre maggiore attenzione per gli aspetti apertamente spirituali e religiosi. Al viaggio esteriore (drop-out dalla società dei consumi e dalla american way of life per vivere on the road) si assocerà quasi sistematicamente il viaggio interiore, effettuato mediante pratiche meditative di tipo tradizionale (yoga, zazen, mantra, ecc.) e mediante l’ausilio di sostanze psicotrope (il trip psichedelico). Dopo i libri The Doors of Perception (1954) e Heaven and Hell (1956) di Aldous Huxley, che fungono da battistrada, appaiono opere come The Psychedelic Experience: A Manual Based on the Tibetan Book of the Dead (1964) e The Politics of Ecstasy (1968) di Timothy Leary e The Center of the Cyclone (1973) di John Lilly, in cui si accostano con disinvoltura le esperienze psichedeliche all’illuminazione buddhista. Molti degli attuali insegnanti occidentali di buddhismo cominciano ad avvicinarsi alla pratica buddhista proprio grazie ad alcune di queste esperienze. Ciò stimola all’interno del mondo buddhista un dibattito sui rapporti fra viaggio psichedelico e pratica meditativa che vede contrapporsi, fin da subito, due tipi di reazioni: uno di totale rifiuto di qualsiasi rapporto fra sostanze psicotrope e buddhismo e un altro molto più possibilista se non dichiaratamente favorevole. Lama Anagarika Govinda (al secolo Ernst Lothar Hoffmann) può essere considerato un illustre rappresentante del primo atteggiamento, mentre Alan Watts del secondo. La loro scelta non è casuale, in quanto essi hanno in comune numerose caratteristiche. Entrambi sono occidentali, entrambi hanno svolto una importante funzione di divulgazione e introduzione in Occidente di alcune eminenti tradizioni buddhiste (theravada e tibetana l’uno e zen l’altro), ma soprattutto entrambi hanno avuto diretta esperienza sia della pratica buddhista sia di alcune sostanze psichedeliche (in particolare LSD) e sono perciò tra le persone più indicate per esprimerne un giudizio comparativo. Eppure le loro opinioni in merito sono nettamente divergenti.

Secondo Govinda, mentre la meditazione produce una “intensificazione” della coscienza, l’uso dell’LSD ne provoca una “dilatazione” con una conseguente atomizzazione delle immagini, tipica anche della cosiddetta arte psichedelica. Ammesso inoltre (ma di ciò non vi è prova, dice Govinda) che le esperienze indotte da stupefacenti assomigliassero alle esperienze meditative, esse non comunicherebbero nulla a chi è spiritualmente impreparato, il quale non saprebbe interpretarle e integrarle nella coscienza individuale. La differenza principale consiste però nel fatto che mentre la meditazione “unendo e integrando tutte le facoltà della psiche ci conduce al centro del profondo della nostra coscienza”, l’LSD ci riduce invece ad uno stato di completa passività, ad esser preda delle nostre emozioni e delle nostre fantasie in una pericolosa frammentazione dell’attenzione e della personalità. La meditazione ci aiuta a creare un nucleo interiore “che fa di noi esseri spirituali consapevoli e ci eleva al di sopra della cieca natura (del caos e del samsara)”, mentre l’LSD ci decentra e rende strumenti delle mutevoli e polverizzate immagini del nostro subconscio, “spettatori passivi di uno psicofilm che si svolge senza la nostra partecipazione” e che soffoca la creatività tipica degli stati meditativi. Il ritrovamento di questo centro interiore, situato tra i due poli della coscienza individuale e di quella cosmica, è per Govinda indispensabile affinché l’individuo tuffandosi nel profondo mare della coscienza universale comune a tutti noi non ne venga inghiottito per sempre. In qualche misura il suo pensiero sembra qui ricordare più che il buddhismo la psicologia analitica di Jung, con l’importante differenza che lo psichiatra svizzero, pur consapevole dei rischi che ciò comporta, ritiene indispensabile immergersi nell’oceano dell’inconscio collettivo affinché la coscienza individuale possa trovare il proprio centro nella sintesi fra le due polarità costituita dal Sé.

Watts può vantare rispetto a Govinda una maggiore esperienza con le sostanze psichedeliche sia in termini di quantità che di qualità, avendo egli assunto LSD sotto lo stretto controllo di un gruppo di ricerca psichiatrica o autonomamente in varie condizioni fisiche e psichiche, ed avendone studiato gli effetti molto più diffusamente e particolareggiatamente.[ii] La sua opinione è che questi prodotti possano essere d’aiuto per l’esplorazione della mente allo stesso modo che un telescopio o un microscopio per l’esplorazione dell’universo. Come tali strumenti sarebbero relativamente inutili senza una guida e una preparazione appropriate, così le sostanze psichedeliche dovrebbero essere assunte con attenzione ed in presenza di un supervisore qualificato (ad esempio uno psichiatra o uno psicologo che abbia egli stesso sperimentato la droga) pronto a fornire un punto di contatto con la realtà come è definita socialmente. In un certo senso, esse si comportano alla stregua di un mezzo di trasporto, il quale può condurre più velocemente a destinazione se correttamente guidato, ma anche ad uno schianto fatale per il conducente se guidato con imperizia o distrazione.

E’ soprattutto il contenuto dell’esperienza di Watts con LSD ad essere molto diverso rispetto a quello registrato da Govinda. Watts rileva come il suo primo ‘viaggio acido’ fu tutto sommato abbastanza interessante e divertente, ma per niente simile ad “un’esperienza mistica”. I suoi sensi assunsero le caratteristiche di un caleidoscopio e il mondo divenne un immenso arabesco multidimensionale di colori così vividi da risultare splendenti. Ogni cosa apparve insolitamente piena di significato ed esilarante, ma nulla di più. Questo, spiega Watts, era accaduto perché egli non aveva ancora imparato a dirigere le sue domande e la sua attenzione sotto l’effetto della sostanza. Ben più significativi furono gli esperimenti successivi, grazie ai quali concluse che l’effetto dell’LSD è quello di annullare il normale apparato di selezione dei dati sensoriali, in base a cui scegliamo solo quelli ritenuti più significativi per i nostri scopi esistenziali. Ne risulta che tutti i particolari del mondo circostante diventano egualmente pieni o privi di significato. Privi di significato perché nulla è più significativo di qualcos’altro, pieni di significato perché nulla ha più bisogno di rimandare ad altro per assumere rilevanza e tutto risulta significativo di per sé. Evidenziando la relatività dei criteri di selezione dei dati sperimentali la sostanza dà modo anche di riorganizzarli secondo altri criteri e modelli, creando variazioni e apparenti distorsioni del campo percettivo. In questo modo è accresciuta non solo la consapevolezza che ciò che abitualmente consideriamo il mondo esterno in realtà è strettamente interrelato con lo stato della nostra mente, ma anche che conoscere il mondo è in realtà allo stesso tempo conoscere se stessi: cessa la rigida dualità di soggetto e oggetto e non vi è più un osservatore distaccato che ha delle sensazioni, poiché si comprende che noi siamo quelle sensazioni e nulla più. “Diventare le proprie sensazioni e non provarle, genera il senso più strabiliante di libertà e sollievo”, scrive Watts. Si annulla anche il dualismo di causa ed effetto, i quali si svelano come polarità di un unico processo che accade non a me o da me, ma per se stesso. La sensazione predominante è dunque quella di un mondo costituito non di cose o sostanze ma di processi, e che l’agente dietro ogni azione sia ancora un’azione. Solo per convenzione noi consideriamo ogni momento del processo come causato da quello precedente e causa di quello successivo. In realtà ogni momento del processo manifesta la pienezza del tempo, dello spazio e del significato, senza dipendere da nulla di passato o di futuro per esistere o avere un senso. Ogni presente è l’eterno e ogni evento è senza perché.

Watts riassume l’effetto prodotto delle sostanze psicotrope sulla propria coscienza in quattro fondamentali caratteristiche. 1) Concentrazione sul presente. La nostra abituale attenzione compulsiva per il futuro diminuisce e diveniamo consapevoli dell’importanza e dell’interesse di quanto sta accadendo nel presente. 2) Consapevolezza della polarità. La vivida comprensione che stati, cose ed eventi che abitualmente riteniamo opposti sono in realtà interdipendenti, come i poli di un magnete. Riusciamo così a vedere l’interiore unità di cose esteriormente differenti: sé ed altro, soggetto e oggetto, destra e sinistra, maschile e femminile, corpo solido e spazio, figura e sfondo, organismo e ambiente, santo e peccatore, ecc. Ogni elemento dell’esistenza è definibile solo grazie all’esistenza del suo corrispondente polare e a mano a mano che questa consapevolezza cresce diviene più intensa la percezione che noi stessi siamo complementari rispetto all’universo che ci circonda, cosicché la nostra esistenza implica quella di qualsiasi altra cosa. La sensazione è di essere qualcosa che l’intero universo sta producendo e, contemporaneamente, che l’universo intero è qualcosa che noi produciamo. 3) Consapevolezza della relatività. Comprendiamo di essere legati ad una infinita gerarchia di processi e di esseri, dalle molecole agli esseri umani, nella quale ogni livello è soggetto alle medesime infinite relazioni. Questo può farci percepire che tutte le forme di vita non sono che innumerevoli e mutevoli variazioni di un singolo tema, e la vita e la morte aspetti di un unico processo. 4) Consapevolezza dell’energia eterna. Il sentimento di unità con l’immensa energia, definibile anche come divinità, che permea e costituisce nella sua essenza e nelle sue manifestazioni l’intero universo.

Chi abbia anche solo un po’ di dimestichezza col pensiero buddhista ritroverà in questa visione della realtà fatta di eventi impermanenti e interdipendenti alcuni dei suoi più noti capisaldi dottrinari, tanto che a Watts sorse il legittimo dubbio che la sostanza chimica non producesse in lui altro che una vivida percezione della sua concezione della realtà. Ma questo dubbio può essere smentito non solo dal fatto che queste esperienze suggerirono talvolta a Watts qualche cambiamento del suo pensiero precedente, ma anche dal fatto che esse rientrano a pieno titolo nella normale tipologia degli effetti provocati da sostanze psichedeliche. In una delle più documentate e penetranti indagini sulle manifestazioni degli stati mistici,[iii] sia spontanei che indotti, Michel Hulin ha in particolare evidenziato tre caratteristiche comuni nel cambiamento della visione della realtà prodotta dalle droghe psichedeliche: dissoluzione dello schema corporeo (ossia dell’abituale identificazione dell’io con il corpo), allontanamento dei riferimenti spaziali e temporali, cancellazione della barriera che separa il soggetto dall’oggetto. Ma Hulin fornisce anche un quadro interpretativo in grado di spiegare le apparenti incongruenze fra il resoconto di Govinda e quello di Watts. Lo studioso francese infatti conferma l’opinione di Watts che la nostra percezione ordinaria della realtà non sia per nulla un’attività disinteressata. Essa al contrario è soggetta alla parte più utilitaristica della mente umana, che seleziona nella natura solo ciò che ha valore per la sopravvivenza, valore stabilito in buona parte dal passato remoto della specie e veicolato attraverso la cultura e l’educazione. L’individuo perciò decifra il mondo sensibile prevalentemente in termini di scopi, pericoli, ostacoli e percorsi, ed è abituato a suddividere ogni elemento della realtà in piacevole o spiacevole, benefico o malefico, significativo o insignificante, muovendosi eternamente nel gioco dell’accogliere o del rifiutare. Attorno a questa percezione delle cose si solidifica il senso dell’io e dell’identità vissuta non in interrelazione ma in opposizione al mondo esterno. La sostanza psichedelica, favorendo una sospensione di questa visione utilitaristica e dualistica della realtà, può produrre così l’apparenza di un vero e proprio reincantamento del mondo tipico dell’esperienza mistica presente nelle maggiori tradizioni spirituali, accompagnato dalla sensazione prevalente che tutto è bene e tutto è perfetto da sempre e per sempre, e in cui non vi è più bisogno di contrapporsi a nulla ma solo di ‘lasciar essere l’essere’. Tuttavia ciò accade solo quando il ‘viaggio’, come nel caso di Watts, abbia esito positivo. Perché mai allora alcune esperienze indotte dalla droga finiscono in uno stato molto più prosaico, come descritto da Govinda, quando non addirittura in un angoscioso terrore che rasenta la follia?

La spiegazione è tutto sommato abbastanza semplice. Tipica di ogni reale esperienza spirituale è la radicale spoliazione dell’ego, l’abbandono di ogni ‘avere’, di ogni sete di appropriazione della realtà. Ma questa spoliazione implica un lavoro su di sé, un percorso a volte lungo e faticoso di trasformazione interiore, dei propri impulsi, delle proprie emozioni, delle proprie abitudini mentali radicate. Pretendere di giungere alla meta senza compiere alcuna tappa intermedia è alquanto imprudente e spesso assai pericoloso, perché si può non avere la maturità spirituale necessaria per affrontare una visione della realtà che è potenzialmente liberatrice. Come nel mito di Icaro, l’impaziente desiderio di alzarsi troppo in alto rispetto alle proprie attuali possibilità può portare ad una caduta rovinosa, da cui sarà poi difficile risollevarsi. A questo riguardo, Platone riporta un antico insegnamento di coloro che istituirono i misteri greci secondo cui “colui che arriva all’Ade senza essersi iniziato e senza essersi purificato giacerà in mezzo al fango” (Fedone, 69c). Fuor di metafora, la sostanza psichedelica può produrre sì un abbassamento della nostra abituale modalità di comprensione della realtà, utilitaristica e separativa, ma non riesce ad impedire che la resistenza prodotta dalle forme canoniche di coscienza di sé crei un clima di angoscia e tensione generato dalla relativa immaturità del soggetto. Egli infatti si trova scisso tra il desiderio di scoprire nuovi orizzonti e quello di aggrapparsi al saldo e rassicurante io fisico, psicologico e sociale. Come nel caso di Govinda, egli vorrebbe avventurarsi nell’oceano dell’inesplorato mondo interiore ma sulla barca costituita dalla propria identità personale ordinaria. E’ da questa contraddizione che traggono origine e alimento le situazioni di paura ed angoscia provocate dalla droga. Lo stato mentale che apre le porte all’angoscia è dato dall’impressione che il reale cominci a sfuggire, che ogni senso di identità venga meno e si sia così inghiottiti, addirittura divorati e smembrati in un vasto vuoto senza fondamento e senza senso. Se tutto ha uguale significato allora tutto ne può essere visto come egualmente privo. Se ogni identità è in realtà momento di un unico immenso processo che accade da sempre, allora tutto può essere considerato come insipidamente indifferente e senza scopo. Se il reale è in continuo divenire allora non c’è più un terreno solido su cui posare il piede e su cui far affidamento. Se l’io non è più il soggetto distaccato che percepisce e manipola una realtà oggettivamente passiva, può nascere la sensazione di venire sopraffatti da un meccanismo mentale che come apprendisti stregoni abbiamo incautamente scatenato ma che non siamo più in grado di padroneggiare. Lo stesso Watts, pur esperto meditante, ad un certo punto provò una sensazione di timore di fronte a tutto questo. “Per un attimo mi sentii perso in uno spazio vuoto, spaventoso, senza fondamenta, insicuro. Eppure dopo un po’ mi abituai a questa sensazione, per quanto strana fosse”. Ma cosa accadrebbe a chi non avesse la maturità e la preparazione sufficiente per “abituarsi”, per abbandonare la presa dell’ego e della sua volontà di tenersi saldamente aggrappato alla percezione abituale? Presi nella morsa dell’impossibilità di accettare la realtà che si spalanca di fronte, e al tempo stesso di tornare indietro ad una rassicurante dimensione individuale di cui si è scoperta l’illusoria convenzionalità, si rischierebbe di piombare nella disperazione. L’angoscia diventerebbe allora la naturale reazione difensiva dell’io di fronte al crollo di tutto ciò che gli conferiva stabilità e consistenza. Una reazione che potrebbe condurre fino al collasso psichico, perché come ricordava lo psichiatra Ronald Laing: “mistici e schizofrenici si trovano nello stesso oceano, ma i mistici nuotano, mentre gli schizofrenici affogano”.

E’ per questo motivo che Watts riteneva consigliabile compiere il ‘viaggio’ alla presenza di una guida esperta, e sosteneva che in ogni caso l’esperienza psichedelica potesse essere solo il barlume di una genuina esperienza mistica, un barlume che andava poi sviluppato e approfondito attraverso pratiche spirituali più consuete, in cui le droghe non fossero più necessarie né utili. “Ricevuto il messaggio, si può riappendere il telefono”. E la più recente analisi del rapporto intercorso fin dagli anni Sessanta fra buddhismo e sostanze psichedeliche dimostra in effetti che il telefono è stato riappeso da tutti gli attuali insegnanti buddhisti occidentali che nella loro giovinezza furono indotti ad avvicinarsi al buddhismo dall’uso di droghe.[iv] Non solo. Quasi nessuno di essi ne consiglia l’assunzione per aiutare o anche solo stimolare il percorso spirituale. Infatti, anche senza voler considerare i pericoli in cui possono incorrere i consumatori poco avveduti, vi è una obiezione di fondo che scoraggia la maggior parte degli insegnanti dall’utilizzare aiuti psichedelici nella pratica buddhista: non è tanto importante l’esperienza del risveglio, quanto piuttosto il percorso che si è fatto per realizzarla. Se il risveglio è ottenuto attraverso una pratica che produce la trasformazione dell’intera personalità, esso diventa parte integrante del nostro modo di essere e della nostra vita, diventa cioè la nostra vera natura. Ma se è semplicemente il risultato estemporaneo dell’uso di qualche droga, esso non produce alcun reale cambiamento nella nostra esistenza, se non la possibilità, del resto non automatica, di venir stimolati ad intraprendere un vero percorso di realizzazione spirituale. Come nota giustamente Hulin, l’uomo che assume droga può essere considerato alla stregua di un attore che sulla scena interpreta il ruolo dell’illuminato, identificandosi con esso al punto di dimenticare per la durata della rappresentazione la mediocrità della sua vita reale. La droga lascia intravedere all’uomo ciò che ‘potrebbe’ diventare, ma lo fa nascondendo l’immensa distanza che lo separa ancora da questa condizione. Per un certo lasso di tempo egli si limita dunque a vivere a credito, illudendosi di essere ciò che non è.

Non solo le esperienze psichedeliche non producono di per sé una reale liberazione, ma possono esservi addirittura d’intralcio nel momento in cui queste suscitassero attaccamento, ossia un atteggiamento possessivo che porta ad interpretare la vita spirituale in termini di conquista, controllo e padronanza. Se è vero che ogni tipo di pratica ascetica è soggetta a questi pericoli, ciò sarà tanto più vero per quelle sostanze che promettono l’illuminazione a facile prezzo. Ogni liberazione conseguita in questo modo non potrebbe essere altro che un’ulteriore prigionia, dato che la liberazione non può essere contenuta in alcun particolare stato della mente, in alcuna particolare esperienza. Il risveglio spirituale si realizza nel buddhismo solo nel momento in cui vediamo e accettiamo profondamente noi stessi così come siamo, la realtà così com’è. Perché la vera liberazione appartiene ad ogni stato della mente, ad ogni esperienza, ad ogni momento dell’esistenza.







Paolo Vicentini




Lama Anagarika Govinda, Illuminazione attraverso la «porta di servizio»? Considerazioni sulla «dilatazione della coscienza» ad opera delle droghe, in Id., Riflessioni sul buddhismo, Mediterranee, Roma 1985, pp. 111-115.

[ii] A. Watts, Psychedelics and Religious Experience, in “California Law Review”, vol. 56, n. 1 (gennaio 1968), pp. 74-85; Ordinary Mind is the Way, in “The Eastern Buddhist”, vol. 4, n. 2 (ottobre 1971), pp. 134-146; La nuova alchimia, in Beat Zen & altri saggi, Arcana, Milano 1973, pp. 97-120; La gaia cosmologia. Avventure nella chimica della coscienza, Ubaldini, Roma 1980.

[iii] M. Hulin, Misticismo selvaggio. L’esperienza spontanea dell’estasi, red edizioni, Como 2000.

[iv] A. Hunt Badiner, edited by, Zig Zag Zen: Buddhism and Psychedelics, Chronicle Books, San Francisco 2002.



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Lama Anagarika Govinda ( al secolo Ernst Lothar Hoffmann) Nato a Kassel, in Germania, nel 1895, dopo aver combattuto sul fronte italiano durante la prima guerra mondiale riprese gli studi in Svizzera, all’università di Friburgo. Iniziò a interessarsi di buddhismo a Capri, dove frequentava esuli europei e artisti americani, e nel 1928 si imbarcò alla volta di Ceylon, dove studiò per un breve periodo meditazione e filosofia buddhista con il monaco theravada tedesco Nyanatiloka Mahathera, che gli diede il nome di Govinda. Spostatosi in India, mentre si trovava a Darjeeling nel 1931 incontrò Tomo Geshe Rimpoche, un lama gelukpa che, a suo dire, gli conferì una iniziazione. Tra il 1947 e il 1948 guidò una spedizione nel Tibet occidentale, finanziata da una rivista di viaggio, in cui incontrò un lama di nome Ajorepa Rimpoche che, sempre stando al suo resoconto, lo iniziò all’ordine kagyu. Di ritorno dal Tibet, Govinda fissò la sua residenza nel Sikkim e negli anni Sessanta la sua casa a Kasar Devi divenne una tappa obbligatoria per i ricercatori spirituali, tra cui Gary Snyder e Allen Ginsberg nel 1961. Dalla pubblicazione, nel 1966, della sua autobiografia The Way of the White Clouds (tr. it. La via delle nuvole bianche, Ubaldini, Roma 1981) la sua fama crebbe costantemente ed egli dedicò i vent’anni che precedettero la sua morte, avvenuta nel 1985, a tenere conferenze in Europa e negli Stati Uniti.







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Alan Watts, Nato a Kent, in Inghilterra, nel 1915, dimostrò un precocissimo interesse per il buddhismo ed in particolare per lo zen. Redattore, già attorno ai vent’anni, della rivista Buddhism in England (oggi The Middle Way) della Buddhist Lodge di Londra, poi denominatasi Buddhist Society, si trasferì negli Stati Uniti nel 1938. Qui dapprima praticò lo zen sotto la guida del maestro Sokei-an Sasaki e poi si laureò in teologia al Seabury-Western Theological Seminary (Illinois). Ordinato sacerdote nel 1945, fu per cinque anni cappellano della Chiesa episcopale presso la Northwestern University. In seguitò abbandonò il sacerdozio e nel 1951 traslocò in California dove divenne uno dei guru della beat generation e della controcultura americana. Professore e per qualche tempo direttore dell’American Academy of Asian Studies di San Francisco, frequentata anche da Gary Snyder, fruì di borse di studio dell’università di Harvard e della Fondazione Bollingen. Divulgatore instancabile, scrisse venticinque libri, ideò e condusse due serie televisive per la National Educational Television, partecipò a più di cinquecento programmi radiofonici, tenne circa mille conferenze. Fu insignito del dottorato honoris causa in teologia dall’università del Vermont per i suoi meriti nello studio comparato delle religioni. Morì nella sua casa californiana nel 1973.



Paolo Vicentini
 

Abej^a G.

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Grazie kataz, super interessante!
 

~Møgõrøs•

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Minchia... Effettivamente ho sempre pensato che non esisteva un vero e proprio "stato di consapevolezza" ultimo da raggiungere... Però non ho mai voluto accettare tale dicitura! Ora che ci penso devo accettare ogni stato di presenza mentale, non quello che reputo "migliore"!!!
 
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